Questa tavola è dedicata ad un ciclo di arazzi, La Dama e l’Unicorno, conservati al Museo Nazionale del Medioevo a Parigi, poiché credo che esso descriva in immagini un aspetto del lavoro interiore che un Iniziato dovrebbe fare. E’ un insieme di sei immagini che mi colpirono profondamente sin dal primo momento, nel 2012 a Londra durante una visita al British Museum quando ne vidi alcune riproduzioni nel negozio di souvenir del Museo. In particolare mi colpì un’immagine dolcissima di una Donna, di nobile rango a giudicare dal vestiario e dagli ornamenti, che suona un organo da camera per un Unicorno ed un Leone. Quell’immagine mi colpì prima delle altre per la mia naturale curiosità e passione per la musica, in particolare quella medievale con le sue scale armoniche a cui ormai il nostro orecchio moderno non è più abituato. Riconobbi lo strumento dell’organo cosiddetto positivo (dal latino ponere cioè collocare, perché essendo di piccole dimensioni può essere facilmente trasportato) di moda nei secoli delle corti quando la musica era un fenomeno ancora legato all’esecuzione del momento e destinato a pochi ascoltatori (la musica orchestrale, infatti, è un fenomeno ottocentesco), suonato dalla Dama grazie all’ausilio di un’ancella che attiva il mantice. Questo è l’arazzo dedicato al senso dell’udito. Il ciclo, infatti, è dedicato ai cinque sensi, ai quali si aggiunge un sesto arazzo, il più enigmatico di tutti, intitolato A Mon Seul Désir, ovvero, “Il  mio solo desiderio”, ed ho avuto la fortuna di vederli finalmente dal vivo solo lo scorso luglio a Parigi, dove sono conservati al Museo di Cluny. Gli arazzi furono tessuti nelle Fiandre (che, tra il Medioevo e il Rinascimento, furono il territorio dell’eccellenza tessile), commissionati da un tale Jean Le Viste, presidente della Cour de aides (ovvero dell’Assemblea sovrana regionale nell’antico Regime in Francia) di Lione. Dimenticati per secoli, furono riscoperti solo nel 1841 quando furono classificati come monumento storico.

I protagonisti di queste scene sono quattro: La Nobile Dama, l’Unicorno, il Leone e l’Ancella; quest’ultima presente solo in quattro delle sei scene. Per poter analizzare l’opera e tentare un’ipotesi di interpretazione bisogna capire cosa rappresentano i personaggi nelle scene e le loro azioni, e come mai è stato scelto come soggetto la rappresentazione dei sensi, o meglio, lo vedremo, la loro sublimazione. Durante il Medioevo molti filosofi scrissero sui cinque sensi e sul loro significato polivalente e simbolico, arrivando a teorizzare una sorta di gerarchia degli stessi, partendo da quello che più ci lega alla materia fino a quello che più ci avvicina a Dio. Guglielmo di Saint Thierry (1075-1148), monaco cistercense e teologo belga, amico di Bernardo di Chiaravalle, concepiva il nostro rapporto con Dio come rapporto d’amore: “Tu ci ami in quanto fai di noi tuoi amanti e noi ti amiamo in quanto riceviamo il tuo Spirito. Il tuo Spirito è il tuo amore che penetra e possiede le intime fibre…”. In quest’ottica i nostri sensi corrispondono a cinque diversi livelli di conoscenza e di amore che conducono ad un unica e sola vera conoscenza finale. Secondo Saint Thierry, il tatto corrisponde all’amore carnale, puro istinto animale, intendendo con questo ogni tipo di legame, da quello sessuale a quello della madre per il proprio figlio. Il gusto corrisponde ad un livello più sublime, ma ancora materiale e istintivo, che egli definisce amore sociale. Il gusto, infatti, ci seduce attraverso il piacere, proprio come un certo istinto, talvolta trasformato in convenzione, lega più persone in gruppi sociali o professionali. L’olfatto, che noi percepiamo attraverso il naso, come “porta” al centro esatto del viso, tra i sensi istintivi e bassi e tra quelli spirituali e alti, corrisponde all’amore naturale e disinteressato che spinge l’individuo a cercare un compagno, un alter ego specchio della parte più profonda di noi. Infine concepisce l’udito e la vista come i più nobili dei sensi, sensi che spingono l’animo umano verso la realtà spirituale e la innalzano verso Dio. Secondo la concezione medievale, la nostra Anima agisce attivamente ma deve separarsi dal corpo per vivere queste esperienze prettamente mistiche. Per lui l’udito corrisponde all’obbedienza a Dio e all’amore spirituale, un amore sublime capace di conquistare finanche i nostri nemici. Allo stesso modo, la vista corrisponde all’amore stesso di Dio e alla  mistica condizione contemplativa di questo Primo Amore (Dante, Inferno 3,6).

In accordo con la tradizione filosofica, possiamo dunque considerare i cinque sensi quali altrettanti portali verso i vari piani della conoscenza, dal più grossolano al più sottile, e in tale ottica possiamo anche interpretare gli arazzi di Cluny. Tutte le scene si svolgono in un giardino fiorito, attorniato da alberi, che variano di numero e specie, e diversi piccoli animali, mentre i protagonisti sono rappresentati di grandi dimensioni e pieni di particolari. Il centro di ogni scena è sempre la nobile Dama che sembra essere colei che impartisce l’indicazione da seguire. L’Unicorno è un animale mitologico con poteri magici, bianco, dalla forma equina e dalla cui fronte si erge un corno a forma di spirale. Nell’immaginario medievale, esso può essere ammansito solo da una Vergine  ed  il suo  corno  ha  il  potere, tra  l’altro,  di  n eutralizzare  i veleni. Tutte  queste esplicite caratteristiche ci dicono che l’unicorno è evidentemente la parte di noi più pura. Senza andare troppo oltre nella letteratura e nella filosofia, l’immagine stessa dell’unicorno evoca il fanciullo in noi. Del resto, chi sono gli unici a poter credere che esista un essere tanto splendido? Solo i bambini, gli adulti ne riderebbero al solo pensiero facendolo sparire dalla loro immaginazione. Nelle rappresentazioni, esso non è mai maestoso, ma piccolo come un pony. Si manifesta solo alle Vergini, cioè alle anime pure, e guarisce dai veleni del mondo perché ci ricorda che c’è una parte di noi intoccabile a qualsiasi dolore. ” Soltanto uno che non ha niente da perdere e tutto da guadagnare ucciderebbe un unicorno. Il suo sangue ti mantiene in vita anche se sei a un passo dalla morte, ma il costo da pagare è tremendo: “Poiché hai ucciso una cosa pura e indifesa per salvarti, dall’istante che il sangue tocca le tue labbra non vivrai che una mezza vita, una vita dannata” (dal film  Harry Potter e la Pietra Filosofale). Appurato cosa sia il nostro Unicorno, è chiaro che esso da solo non avrebbe vita lunga, così indifeso e così desiderato. Se aspiriamo ad aprire i portali dei nostri sensi dobbiamo essere puri come un Unicorno, ma anche forti come un Leone. Molto ci sarebbe da dire sul simbolismo di questo animale, ma mi limiterò in questa sede a ricordare che esso non è mitologico, non c’è bisogno di purezza per vedere un leone, e che astrologicamente i giorni legati al segno del Leone sono i più caldi dell’anno (la Canicola, i giorni in cui la stella Sirio è nella Costellazione del Cane, per gli antichi Egizi erano questi i giorni delle carestie e delle pestilenze, in cui Seth era più forte, ma erano anche i giorni che precedevano l’Inondazione del Nilo ). Il Leone, infatti, astrologicamente è il Fuoco che brucia e distrugge (differente dall’Ariete, Fuoco che dà la vita e dal il Sagittario, Fuoco nascosto), necessario a togliere il superfluo. I due animali, il cavallo ed il leone, sono inseparabili e possono essere paragonati alle colonne del Tempio di Salomone, e quindi a quelle del nostro Tempio. In un testo inciso sulle millenarie mura del Tempio di Horus ad Edfu, Osiride chiede a suo Figlio (emblema dell’Iniziato) quale dei sue due animali è più utile in guerra: il Leone oppure il Cavallo. Evidentemente essi sono entrambi indispensabili, ma Horus risponde che il Cavallo è più utile perchè permette di correre lontano e afferrare i nemici.

Alla luce di questa dovuta premessa, torniamo ai nostri arazzi. Tutte le scene si svolgono su uno sfondo rosso, simbolo di regalità ma anche dello Zolfo alchemico e, quindi, del Fuoco. Non solo: tradizionalmente la Pietra Filosofale viene rappresentata rossa, frutto dell’ultima fase della Grande Opera detta appunto Rubedo. Nel linguaggio alchemico, lo Zolfo è quello che rende unico un individuo da un altro (ad esempio in una pianta lo Zolfo è il profumo, diverso da specie a specie), per cui negli esseri umani è il nostro Spirito, la scintilla divina, il nome con cui Dio ci ha creati. I personaggi sono sempre in un giardino ricco di fiori e di alberi. Per analogia possiamo ricordare le parole di Parisino (alchimista vissuto nel 15° secolo) citato da Weidenfeld (“I Segreti degli Adepti”) il quale ricorda che il Mercurio Filosofale è vegetabile, quindi vivo perché si nutre ma sopratutto ci nutre. In tutte le scene compaiono piccoli animali (cani, uccelli, conigli, ma anche felini) evidentemente simboli di aspetti umani dominati. Seguendo la gerarchia di Saint Thierry, nel primo e nell’ultimo arazzo, cioè quelli dedicati rispettivamente al tatto e alla vista, manca l’Ancella. Nel tatto, infatti, la Dama agisce direttamente sull’unicorno, anche se si volta verso il Leone, e gli tocca il lungo corno. La rappresentazione del gesto è duale: reale e sublimato. In questo gesto c’è sia un’allusione sessuale (amore degli istinti) ma anche il superamento di questo aspetto. Attraverso il tocco, infatti, la Dama sembra benedire l’animale. Ricordiamo, a tal proposito, l’emblematico episodio biblico in cui Giacobbe riceve la benedizione da suo padre Isacco, al posto del fratello, Esaù, attraverso un inganno. Isacco, infatti, crede di riconoscere il figlio attraverso il tocco e attraverso il tocco lo benedice: “Avvicinati e lascia che ti tocchi, figlio mio, per sapere se tu sei proprio il mio figlio Esaù o no” (Genesi 27,21). È attraverso un contatto fisico che ci viene trasmesso il fuoco sacro dell’Iniziazione.

Nel secondo arazzo, dedicato al gusto, i due animali protagonisti incorniciano la scena ai lati in posizione rampante ma non prendono parte all’azione che infatti si svolge tra l’Ancella che, in ginocchio, porge una grande coppa alla Dama la quale, rivolto lo sguardo ad un uccellino che sembra prendere il volo dalla sua mano destra, porge la sinistra nella coppa per prendere qualcosa da far mangiare al volatile. Con l’aiuto di un’ancella (forse la parte mortale della nostra anima, ma anche la nostra mente, assente nel più basso dei sensi e nel più alto) il semplice nutrimento o il piacere che proviamo nello stesso, deve essere volatilizzato per poter arrivare dalla terra al cielo.

Nella terza scena dedicata all’olfatto, la nobile Signora sta intrecciando una corona di fiori da un cesto che le viene offerto dall’Ancella. A lato, quasi in secondo piano, una scimmietta annusa gli stessi fiori da un altro cesto. Unicorno e Leone sono, anche stavolta, ai lati a guardare passivamente la scena. Come abbiamo visto, l’olfatto è il primo senso sublime, il primo che si serve di una duplice porta (assieme ad udito e vista) anziché una, il primo che ci obbliga ad abbandonare gli istinti per qualcosa di più alto. E cosa è la scimmia se non un essere umano totalmente dato agli istinti? Così con l’olfatto impariamo a scegliere il profumo che più ci rende simili a Dio. Incensi e profumi sono da sempre l’offerta più diffusa fatta alle divinità nei templi.

Nel quarto arazzo, quello che illo tempore suscitò la mia curiosità, la Dama suona un motivo, aiutata dall’ancella che alimenta l’organetto. Una scala musicale e, a maggior ragione, una melodia è l’ordine di qualcosa che prima era caotico (il suono), un linguaggio che suscita sensazioni e sentimenti grazie a rapporti numerici. La musica è parte della lingua che si parlava prima della caduta della Torre di Babele, poiché ancora oggi può essere universalmente usata per esprimere qualcosa ed essere compresa in ogni luogo ed ogni tempo. Inoltre, come ricorda il primo verso del Vangelo di Giovanni, Dio crea attraverso un suono (“In principio era il Verbo”). Probabilmente,  chi ha la fortuna di riconoscere la voce di Dio conosce il vero significato della Fede.

Al senso più sublime, la vista, è dedicato il quinto arazzo. La scena è semplice quanto meravigliosa: la Dama accarezza l’unicorno (unica altra scena in cui tocca l’animale, assieme alla prima dedicata, appunto, al tatto) invitandolo a guardarsi allo specchio che Ella stessa gli porge avanti. L’Unicorno sembra accennare un sorriso mentre riconosce se stesso, mentre il Leone si volta come a difendere la scena. La contemplazione di Dio è, evidentemente, il “Conosci te stesso” di Delfi, sul cui Tempio di Apollo, era incisa una grande lettera Heta il cui valore numerico è 8 (5+3). Cinque parti di noi da conoscere e rendere una soltanto.

Questo, forse, il significato dell’ultimo arazzo, in cui il Leone e l’Unicorno aprono una tenda da cui esce la nostra Dama che fa cadere, in una scatola che l’Ancella regge, la preziosa collana aurea che indossa negli altri arazzi, come a voler simboleggiare che Lei non ne ha bisogno e che ne fa dono alla sua fedele serva che l’ha meritata. La tenda sembra quella di un accampamento e, personalmente, mi ricorda, per il suo mistero, un alcova nuziale (“Bruna sono ma bella, o figlie  di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma” dal Cantico dei Cantici). Difatti, sulla cima è scritta la frase che dà il nome alla mia tavola “A Mon Seul Dèsir”, ovvero “Il mio solo desiderio”. Questa tenda è blu come il cielo ed è coperta da tante fiammelle, a sottolineare il Fuoco Sacro del desiderio a cui evidentemente fa riferimento.

Chi è costei che sorge come l’aurora,
bella come la luna, fulgida come il sole,
terribile come schiere a vessilli spiegati? […]
Non lo so, ma il mio desiderio mi ha posto
sui carri di Ammi-nadìb

(dal Cantico dei Cantici)

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One Reply to “Au Mon Seul Désir”

  1. In “A mon seul dèsir” la Dama si profila dalla tenda, e in modo traslato, è come se varcasse la soglia della reggia di Francia, deponendo i gioielli, che fanno da emblema al suo potere regale giunto al termine, nel cofanetto retto dall’ancella.
    Eppure l’immagine in questione riserba una sorpresa assolutamente imprevedibile, perché in essa è contenuta la risposta che nessuno poteva mai immaginare, e nemmeno l’artista nel dipingere il cartone, servito successivamente ai tappezzieri belgi per tessere l’arazzo. Questo poiché gli arazzi erano destinati in un luogo lontano da Parigi, probabilmente la residenza del committente Jean Le Viste, nel suo castello nell’Alta Loira vicino a Lione.
    Il caso, beffandosi della logica umana per l’interpretazione di questa opera d’arte, si è servito della scienza matematica, in particolare la geometria gnomonica del tutto estranea a questa degli arazzi, per tradurre con segni grafici la risposta tramite coordinate geografiche del luogo esatto del Museo dell’Hotel Cluny di Parigi dove è esposta nelle diverse versioni la Dama, per essere visitata da ammiratori di tutto il mondo.
    É questo il presagio celato nella frase “A mon seul désir”, ma chi poteva mai immaginare che fosse il misterioso desiderio della Dama di Cluny? Cioè un desiderio, ma è proprio questo che l’artista di questo arazzo, deve pur aver pensato? Ma come poteva immaginarlo? Ecco un mistero dentro il mistero. Come a concepire l’idea di una lezione del mistero per l’uomo della ragione indisposto a valicarla per farne nascere in lui una nuova capace di coniugarvisi. Come a supporre di trovarci in un epoca in cui, forse si debba prospettare la possibilità di un’era nuova per un nuovo Rinascimento culturale.

    Vi propongo di leggere un mio scritto pubblicato a questo link:
    https://www.artonweb.it/a mon seul déesir per sorte.pdf

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