Con somma umiltà e nell’intento di contribuire nel mio piccolo ad edificare il nostro tempio interiore, cercherò, non certo in modo esaustivo, ma mi auguro il più stimolante possibile, di approfondire il tema della Libertà.

Tengo a precisare che il problema della libertà è molto complesso e irrisolvibile, poiché nell’affrontarlo si riscontrano notevoli difficoltà, non ultima la polisemiadei termini impiegati nell’affrontarlo, tali da non afferrare mai del tutto che cosa realmente la libertà sia. Se almeno si sapesse con certezza che cosa essa sia, si potrebbe per lo meno univocamente capire se l’uomo ne sia equipaggiato oppure no. Invece, risulta assai arduo, ancor prima di decidere se l’uomo sia libero o no, capire che cosa effettivamente la libertà sia e ulteriori complicazioni sono introdotte dal fatto che, accanto ai due modelli inerenti la “libertà di” e la “libertà da”, se ne sono sviluppati molti altri da essi derivanti.

Nel corso della storia la speculazione filosofica ha per oggetto due modelli di libertà:

Mi limiterò in questa sede a fare un breve excursus, fornendo dei cenni poiché’ l’argomento, per vastità e complessità dei molteplici punti di vista succedutisi tra i più illustri pensatori nella storia occidentale ed orientale, richiederebbe molto più tempo.

  • la “libertà di” volere ciò che ancora non si vuole per cui io sono libero di volere indifferentemente dalla morale.
  • la “libertà da” condizionamenti esterni, influenze di pensiero o limitazioni imposte dall’esterno, ma anche libertà dai propri limiti e dalle proprie passioni. In questo modello ciò che si vuole è già presupposto.

La “libertà da” esprime in sé stessa un volere atemporale, incondizionato dai molteplici fattori esterni ed interni all’uomo.

In sostanza, l’uomo libero è tale se vuole ciò che è già predisposto a volere secondo la sua essenza che, in quanto tale è vera e giusta.

La conoscenza e la consapevolezza della propria essenza porta necessariamente l’uomo ad essere libero da ogni condizionamento.

Essendo in tal modo libero in sé, questi agisce mosso da un principio di razionalità assoluta, seguendo una necessità che rispecchia l’ordine necessario del mondo: non è costretto da forze esterne, ma obbedisce ad un principio necessario, una forza che preesiste l’azione. Questa forza è già nella mia essenza. In altri termini, sono io stesso quella forza.

La libertà, come avvertiva Spinoza, risulta conciliabile con la necessità.

L’uomo che segue la necessità imperante nel cosmo realizza la sua libertà, intesa ovviamente non come facoltà di scegliere A anziché B, bensì come “libertà da” costrizioni.

Riprendendo il cammino a ritroso lungo la storia, partendo dal mondo ellenico, culla del  pensiero e fonte di civiltà, sembra di  riscontrare che  la cultura greca, pur così acuta e ingegnosa, non si pose più di tanto il problema della libertà, prova ne è il fatto che la lingua greca sia sprovvista di un termine che designi propriamente la “libertà”, tenendo conto che ἐλευθερία designa esclusivamente la libertà in sede politica (libertà dalla tirannia, dai Persiani, ecc) e ha ben poco a che vedere con la possibilità di riconoscere all’uomo una responsabilità dell’azione. Pur tuttavia, nelle tragedie il coro, spiegando le azioni dei protagonisti, fa costante riferimento alla Ἀνάγκη alla Μοῖρα (destino) alla Τύχη (sorte), tutte forze che condizionano l’uomo impedendogli di esercitare qualsiasi forma di libertà.

La giusta azione dell’uomo.

L’uomo libero e giusto è tale poiché’ agisce secondo la forza che regna nell’universo, divenendo espressione ad essa. Tale forza, intesa come razionalità positiva (il λόγος degli stoici), permea ogni cosa, ivi compreso l’uomo.

Platone, nel mito di Er, descrivendo l’incarnazione delle anime, descrive come queste incarnandosi scelgono una sola volta in cosa incarnarsi, ma una volta fatta la scelta non possono tornare indietro. Quindi, ciascuno di noi sceglie all’inizio in quale vita calarsi, ma dopo di che non ha più libertà di scelta, il che ben rispecchia l’adesione platonica all’imperativo socratico secondo il quale è impossibile effettuare un’autentica scelta tra bene e male. Secondo Socrate, nessuno compie il male volontariamente, bensì lo fa solamente perché ignora la sua reale entità. L’uomo è libero in sé, cosicché basta sapere che cosa sia il male per evitarlo. Il male è dunque l’ignoranza della propria entità.

Aristotele, convenendo in parte con Socrate, distinguerà poi tra azioni volontarie dettate dalla spontanea consapevolezza e azioni involontarie determinate da coercizione e/o ignoranza.

I Cristiani

Nel cristianesimo Dio non è solo pensiero come diceva Aristotele, ma anche Volontà e tale dualismo si riverbera sull’uomo che è stato creato a Sua immagine e somiglianza. Sicché, l’uomo, oltre a pensare, sa anche volere liberamente.

Al Dio come mero pensiero rispecchiante l’ordine del cosmo (a cui Egli non può sottrarsi) si sostituisce un Dio onnipotente, tale da poter liberamente fare ciò che vuole, a tal punto da determinare secondo la Sua volontà le leggi del pensiero. Alcuni filosofi medioevali arriveranno a dire che due più due fa quattro perché Dio ha deciso così, ma se Egli avesse deciso che facesse cinque, allora due più due farebbe cinque. Da qui prende le mosse una lunga tradizione volontarista (tipicamente francescana) che fa dell’uomo un ente pensante e soprattutto capace di scegliere liberamente se fare il bene oppure il male.

Nella cultura greca le azioni erano riflesso di una legge generale corrispondente ora al λόγος, ora alla Τύχη e ciò si trascina in parte fino ai cristiani che molto ereditano dal mondo greco. In particolare, questo strascico della cultura antica affiora in seno al cristianesimo nella concezione ch’esso ha della Provvidenza come forza imperscrutabile che regge, trascendendolo, il mondo.

Nel mondo musulmano, poi, ciò è ancora più forte, in quanto l’Islam è letteralmente una totale sottomissione.

Agostino sosterrà che il male sia da noi accettato per libera scelta e dirà:

 “Nessuno è costretto a esser schiavo del piacere”, aggiungendo che “la volontà è un moto dell’anima senza nessuna costrizione esterna o a non accettare qualche cosa o a ricercare qualche cosa”

L’altra faccia della medaglia del cristianesimo, accanto a quella della libertà dell’arbitrio, era quella data dal riconoscimento dell’assoluto dominio della Provvidenza sulla natura e sul mondo umano.

Secondo Cartesio la libertà assoluta è quella di Dio.

L’uomo non è un essere infinito, ma è creato da Dio. Egli si muove, vive, diviene, in un contesto in cui è Dio ad aver stabilito le leggi della natura e l’ordine cosmico, che cosa sia vero e che cosa falso, che cosa giusto e che cosa ingiusto; ne segue che per l’uomo la vera libertà non è volere ciò che vuole (“libertà di”), ma volere ciò che è giusto (“libertà da”).

Pertanto, la libertà di indifferenza, quella cioè determinata dalla mera volontà di scegliere ciò che si vuole a prescindere se l’oggetto della volontà sia giusto o ingiusto, è la forma più bassa e più nociva di libertà, poiché consente di scegliere sia il falso che il vero, l’ingiusto anziché il giusto.

La vera libertà consiste allora nel decidere in conformità all’ordine decretato da Dio e ad illuminarci sull’ordine del mondo non può essere la volontà che per sua natura non opera distinzioni, ma l’intelletto, che così diventa il vero principio della libertà, il faro seguendo la cui luce si è liberi. La volontà deve quindi auto-subordinarsi ad esso e decidere di volere ciò che l’intelletto dice essere bene, giusto, vero, ecc.

In questo modo, Cartesio sconfessa la tradizione cristiana dell’egemonia della volontà sull’intelletto (“libertà di” comporta la libertà di volere ciò che ancora non si vuole, per cui siamo noi stessi a determinare la nostra volontà: l’uomo non sceglie perché vuole, ma vuole perché sceglie) e si ricollega direttamente a Tommaso per il quale è l’intelletto ad individuare la ratio boni, il criterio del bene su cui la volontà deve modularsi. La libertà consiste dunque, ad avviso di Cartesio, nel fatto che, affermando o negando ciò che suggerisce l’intelletto, non mi sento coartato da una forza esterna o dalle mie passioni e ciò in forza del fatto che l’intelletto che detta legge sono io stesso, con la mia ragione.

Ecco la “libertà da”, consistente nello scegliere A o B secondo un principio che sento come mio e come non imposto dall’esterno; la “libertà di” resta una prerogativa squisitamente divina.

Se l’uomo agisce mosso da un principio di razionalità assoluta data dall’intelletto, allora agisce seguendo una necessità che rispecchia l’ordine necessario del mondo: non è costretto da forze esterne, ma obbedisce ad un principio necessario dell’azione, essendo in tal modo libero in quanto la forza che mi condiziona è data dalla mia stessa natura. In altri termini, sono io stesso quella forza. In questo senso, la libertà risulta conciliabile con la necessità.

Il caso paradigmatico di questa concezione è rappresentato da Spinoza, secondo cui la scelta libera è tale in quanto necessaria espressione di un ordine naturale in cui l’uomo vive e di cui è parte integrante come essenza.

Per Cartesio, tutt’altro discorso valeva per il pensiero, che era una sostanza distinta da Dio.

Per Spinoza, invece, il pensiero è attributo della sostanza infinita, sicché è, alla pari dei corpi, espressione di un’unica sostanza. Qualunque siano i modi con cui la sostanza si manifesta nei suoi diversi attributi, tale manifestazione avviene sempre secondo quello che Spinoza definisce un “ordine geometrico” ovvero causale: il dualismo tra estensione e pensiero è azzerato, proprio come la possibilità che uno dei due ambiti si sottragga al determinismo.

Cartesio aveva introdotto anche un secondo tipo di dualismo, quello interno al pensiero tra intelletto e volontà, ritenendo che i due fossero in certo senso indipendenti, poiché la volontà si estende ben di più rispetto al pensiero. Ora, anche questo dualismo è accanitamente combattuto da Spinoza, il quale dice che esiste un unico attributo del pensiero e al suo interno la volontà e l’intelletto non sono facoltà diverse, altrimenti tale attributo si dividerebbe in sotto-attributi, bensì sono due modi diversi di indicare il pensiero e, di conseguenza, le singole volizioni e le singole intellezioni sono la stessa cosa, ovvero sono gli stessi modi del pensiero. Sicché, se per Cartesio con l’intelletto posso concepire una data azione, ad esempio rubare, e la volontà può dare l’assenso o negarlo a tale concezione dell’intelletto, per Spinoza, al contrario, volontà e intelletto, volizione e intellezione, sono lo stesso modo del pensiero, manca cioè la distinzione tra volto pratico e volto teoretico del pensare, cosicché siamo noi a chiamare in due maniere diverse una singola idea.

Se tuttavia la intendiamo come “libertà da” costrizioni esterne, allora possiamo a ragion veduta sostenere che per Spinoza la libertà esiste: essa sarà, in particolare, non una libertà di agire in sé necessaria. In questo senso, la libertà non si oppone alla necessità: perfino Dio obbedisce alla propria natura e proprio per ciò non è determinato da altro; la libertà, così intesa, è dunque opposta non alla necessità (che è ineliminabile), ma alla coazione, ovvero l’esser necessitati da altro. A godere perfettamente della libertà come l’abbiamo poc’anzi delineata sarà solo Dio, mentre ogni altro ente sarà sempre necessitato e per di più coartato.

Kant sostiene che esistono due diversi livelli di realtà, uno sovrastante l’altro. Così, da un lato troviamo la realtà sensibile (“fenomenica”), cui appartengono il corpo e tutte le sue determinazioni e dall’altro una realtà intelligibile non data dai sensi, ma a cui si può pervenire tramite un’esperienza extra-sensibile. Così inteso, l’uomo finisce per essere non una combinazione di due sostanze (quale invece era secondo Cartesio), ma come un’entità appartenente a due diversi ordini di realtà. Con la sua soluzione, Kant, compiendo tale operazione di difesa della libertà nel mondo noumenico, esclude ogni forma di libertà in quello fenomenico.

A questo punto sorge una domanda, come fa l’intelletto a sapere ciò che è vero e quindi giusto?

Se vero e giusto sono tipicità del Divino e se la ragione Divina è incomprensibile all’uomo, come può comprenderla?

A parere di chi scrive, l’uomo non può conoscere totalmente la ratio divina in quanto creatura e non creatore, in quanto emanato e non emanante; egli è immerso in un ordine che non può conoscere totalmente ma che può tuttavia percepire, avvertire, sentire, in quanto, facendone parte, contiene nella sua essenza la stessa energia vitale, lo stesso principio che da Dio emana.

L’essenza dell’uomo e di tutto è Energia
(cfr. Liebniz)

Poiché’ il Principio divino, l’Energia è libera, l’uomo partecipa come natura senziente di questa Libertà assoluta.

Come avviene la partecipazione alla libertà?

Attraverso quella parte dell’intelletto che definiamo irrazionale, cioè intuitivo, non spiegabile con la semplice ragione analitico deduttiva.

Una volta stimolata, la parte intuitiva, senziente, meditativa, ci consente di entrare in contatto con un’altra dimensione. In quel momento l’uomo sperimenta uno stato di unione col tutto, di consapevolezza e di libertà al di fuori dello spazio e del tempo. Così, l’uomo esprime la sua partecipazione verso l’Assoluto, percependo l’ENERGIA VITALE COME AMORE.

Il segno di tale partecipazione è la sensazione di serenità interiore e di libertà.

Concludo asserendo che tutto ciò che è libero è dettato dell’Amore e vive nell’Amore.


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